lunes, 6 de julio de 2009

Honduras, il golpista che viene da Bergamo - El golpista que llegó de Bergamo

Honduras, il golpista che viene da Bergamo

Micheletti «el italiano». Dicono di lui: «È un duro»

Il presidente golpista Roberto Micheletti saluta i militari (Afp)

RIO DE JANEIRO — Un ber­gamasco che lavora «come un toro», duro, determinato e senza troppi scrupoli. Figlio di quel pezzo d’Italia che se ne andò a cercare fortuna nel­le Americhe a cavallo dell’ulti­ma guerra, più per cambiar aria che per necessità. Rober­to Micheletti, 65 anni, il presi­dente dell’Honduras che nes­suno riconosce, l’ultimo gol­pista fuori tempo dell’Ameri­ca Latina, non è nato in Italia ma solo per caso. In quegli an­ni il padre Umberto era già an­dato e venuto da Bergamo al­l’Honduras per un paio di vol­te, incerto tra la propria terra e le opportunità che si apriva­no in un Paese poverissimo, dove gli stranieri più svelti potevano arrivare facilmente al vertice del potere e della ric­chezza. E sono stati i due figli maschi, Roberto e Marco Po­lo, a realizzare il sogno. Con un percorso classico: eserci­to, imprenditoria e politica.

Giovanissimo, Roberto si arruolò nella guardia armata presidenziale, dove ebbe un ruolo primario in un tentati­vo di colpo di Stato nel 1963. Fallito il golpe, finì brevemen­te in carcere. Passò un perio­do negli Stati Uniti, dove mi­se insieme una somma che gli permise al ritorno di com­prare una flotta di camion. Dai primi mezzi che guidava personalmente, Micheletti e il fratello arrivarono a creare in Honduras una grossa ditta di autotrasporti, che ancor og­gi possiedono. Ma entrambi sapevano che il vero salto si poteva effettuare solo con la politica.
Roberto è alla Came­ra dai primi anni Ottanta, il fratello è già stato al governo, come viceministro dell’Agri­coltura. Entrambi in quel par­tito liberale che rappresenta gli interessi dell’oligarchia del Paese ma è bravissimo a trovare i voti tra i più poveri, grazie al maneggio dei fondi pubblici. Nel frattempo i due sono rimasti attivi nella picco­la comunità italiana dell’Hon­duras (sono circa un migliaio i nostro connazionali) e Mar­co Polo ha tuttora una carica nella camera di commercio italiana a Tegucigalpa.

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Senza il golpe, Micheletti non sarebbe mai arrivato alla Presidenza. È molto conosciu­to, ma non è popolare, si dice a Tegucigalpa. Alle primarie del partito che avrebbe dovu­to decidere il candidato ven­ne sconfitto, ma intanto era riuscito a conquistare la presi­denza del Congresso. Una po­sizione ritenuta fondamenta­le in Honduras, perché dispo­ne di fondi pubblici che pos­sono essere utilizzati nei colle­gi, a fini clientelari. La scorsa settimana è stata questa cari­ca a permettergli di diventare capo dello Stato, nel tentativo dei golpisti di dare una par­venza di legittimità costituzio­nale al cambio. Come era pre­vedibile, il vicepresidente ha rifiutato di succedere a Zela­ya, e così la fascia presidenzia­le è toccata a «el italiano». Toccherà adesso a lui distri­carsi nel pasticcio internazio­nale creato dal golpe. Nessun Paese ha riconosciuto il suo governo e molti ambasciatori latinoamericani sono stati ri­chiamati in patria per prote­sta.
L’Unione europea decide­rà il da farsi nelle prossime ore. Micheletti forse non ave­va fatto i conti con la secca censura arrivata anche dalla Casa Bianca. Pensava forse che i forti interessi americani in Honduras, sempre difesi dal suo schieramento, potes­sero bastare a far passare l’azione come un cambio ac­cettabile. Nelle prossime ore dovrà anche trovare il modo di gestire quello che promet­te essere un colpo di teatro. Zelaya, oggi in Costa Rica, vuole tornare in patria, forte dell’appoggio dell’Onu che lo considera ancora presidente legittimo. La presidente ar­gentina Cristina Kirchner lo accompagnerà. Come farà Mi­cheletti a far eseguire il man­dato di cattura che — ha ri­cordato — pende sulla sua te­sta?

Rocco Cotroneo01 luglio 2009


Fuente: www.corriere.it

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